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BERLIN
ANTONIO ISCA
Fino a quando i quarantatré chilometri del muro di cemento armato la attraversavano ferendola a morte, Berlino rappresentava quasi la negazione dell'idea di città. Un luogo dall'anima mutilata. Un corpo privato della sua forma originaria.
Oggi, quei quarantatré chilometri si sono volatilizzati, dissolti nel nulla e Berlino, dopo oltre vent'anni, continua ad essere il più grande cantiere d'Europa. La sua frenetica trasformazione ed il radicale riassetto architettonico, sembrano evocare una sorta di big-bang urbanistico e antropologico. Attraversarla è come salire su una macchina del tempo, capace di sbalzarci increduli tra passato e futuro.
A catturarmi è stata soprattutto la sua architettura che, nonostante gli audaci tratti innovativi, sembra costantemente ispirata dall'intenzione di rappacificare storia e presente. Spesso, la riuscita di un edificio si misura dal modo in cui rispetta ( e, talvolta, rispecchia) le costruzioni che lo hanno preceduto. La loro "aura" non viene cancellata, consentendo in tal modo alla città di rimodellarsi attorno ad un'anima multiforme ma coerente.
Questa architettura del "genius loci" mi è parsa espressa in modo esemplare nella costruzione del Museo Ebraico di Daniel Libeskind, forse l'opera più sconvolgente e significativa realizzata a Berlino fino ad oggi.Una struttura a forma di saetta, ricoperta di zinco e attraversata da feritoie oblique che, pur calandosi come un corpo estraneo nel contesto urbano circostante, attraverso i suoi studiati riferimenti, si riallaccia in modo vivo alla topografia della città, composta di singoli elementi, ciascuno dotato di una sua specificità, ma sorprendentemente convergenti nella costruzione di un carattere esemplare.
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